12 Mar Mulino o Molino?
Ognuno tira l’acqua al suo…mulino o molino?
La domanda è semplice, la risposta no, chi meglio dell’Accademia della crusca può rispondere?
Ci viene in soccorso Matilde Paoli, Consulenza Linguistica Accademia della Crusca.
Le due varianti Mulino o Molino si differenziano per una vocale in corpo di parola e, come tale, non portatrice di tratti di significato o anche solo morfologici. Non si tratta di un termine “esotico”, ma di chiara ed evidente derivazione latina; è una voce di “alto uso”, secondo la classificazione del GRADIT, e, se anche non tutti hanno combattuto contro i mulini a vento, se non a tutti Rodari ha insegnato che non si tratta del “mulo più piccino”, se solo i non più giovani ricordano “Il Mulino del Po” sceneggiato dalla RAI nel 1963 e se qualcuno non conosce la casa editrice il Mulino, sicuramente nessuno ignora l’esistenza di quello “bianco”. La domanda è semplice quindi e la risposta dovrebbe esserlo altrettanto. Però…
Molti dizionari contemporanei, nelle diverse tipologie, registrano le due varianti senza alcuna annotazione, anche se pongono sempre la trattazione al lemma mulino (Vocabolario Treccani, GRADIT 2007,GARZANTI2007, HOEPLI 2011 eZINGARELLI2016); solo alcuni aggiungono delle specificazioni: il Sabatini-Coletti 2008 e il Devoto-Oli 2014 qualificano molino rispettivamente “meno frequente” e “meno comune” di mulino. Bisogna andare abbastanza indietro negli anni per trovare le due forme differenziate anche in rapporto alla diffusione geografica e al livello di lingua. Giulio Cappuccini nel suo Vocabolario della lingua italiana (Torino, Paravia, 1916 e 1935), annota la voce molino con un commento rimasto invariato anche nell’edizione a cura di Bruno Migliorini (Torino, Paravia, 1945): “comune” nell’uso “popolare” di molti luoghi fuori di Toscana, e in qualche scrittore”. Questa marginalità della variante con la o si riscontra anche nella prima edizione, contemporanea o quasi della prima del Cappuccini, dello ZINGARELLI, datata 1917: in essa molino è addirittura scomparso, non solo come variante al luogo alfabetico, ma anche dalla trattazione di mulino (mentre compaiono molinello, con rimando a mulinello, e molinaio o molinaro ‘mugnaio’, benché con la crux e l’annotazione “vivo nei dialetti”). La scelta dello ZINGARELLI rimarrà invariata fino alla IX edizione (1965); la X (1970), a cura di Miro Dogliotti, Luigi Rosiello e Paolo Valesio, adotterà quella che ancora oggi mantiene.
Si potrebbe pensare che all’inizio del Novecento la lessicografia tendesse a imporre, secondo il modello toscano, la forma mulino, che presenta la chiusura della vocale protonica tipica della Toscana centrale; ma l’atteggiamento non è sempre condiviso, visto che Il nomenclatore italiano di Palmiro Premoli, edito a Milano da Sonzogno nel 1915, adotta la stessa scelta dei lessicografi odierni: “mulino (o molino)” a lemma. A dire il vero neppure la lessicografia “toscanista” di fine Ottocento mostra nei confronti della variante l’ostracismo dello ZINGARELLI 1917: nel Rigutini-Fanfani (1875) molino, registrato al luogo alfabetico, rimanda a mulino, benché non compaia nella trattazione di quest’ultimo a differenza del derivato “Mulinello o Molinello”; stesso trattamento è riservato alle due forme anche dal Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897). Ancora a ridosso di fine secolo, nel Nòvo dizionario universale della lingua italiana (1891), del pistoiese Policarpo Petrocchi, è a molino che troviamo la trattazione del lemma, comprensiva di citazione dei proverbi più in uso, tutti espressi con la forma in o; mentre mulino vi appare come variante, con la sola citazione del modo idiomatico che abbiamo citato nel titolo, già riportato sotto molino.
Non riesce a dirimere la questione neppure l’esame delle massime autorità lessicografiche coeve, il Tommaseo-Bellini e la V Crusca: il primo registra entrambe le varianti, ma a mulino, dove abbiamo la trattazione, la variante in o presenta la crux, è considerata cioè desueta; diversamente nel Vocabolario degli Accademici le due varianti sono di nuovo affiancate senza alcuna annotazione. L’incertezza, quindi, rimane.
I dizionari registrano un’oscillazione riscontrabile sia nella tradizione scritta della nostra lingua, sia nelle varietà locali di tutta la penisola e della stessa Toscana.
Molino era presente in testi, anche toscani, del Duecento e del Trecento, a volte in libera alternanza con mulino nello stesso autore e perfino nello stesso passo, come in questo dalle Vite dei Santi Padri del pisano Domenico Cavalca riportato nel GDLI: “Andando uno prete per ricoverare uno suo molino, sì cadde entro nel canale sotto il mulino, e le pale l’aveano serrato nel fondo e ‘l molino ristette di macinare” (tomo IV, Vita di S.Francesco, p. 241 dell’edizione Ramanzini, Verona, 1799). Lo stesso Vocabolario della Crusca fin dalla prima edizione(1612) riporta un’attestazione “sommersa” di molino in una citazione dalla traduzione del Tesoro di Brunetto Latini posta a corredo della voce vivaio, benché solo nella IV edizione (1729-1738) lo accolga a lemma grazie anche alle due versioni date dal Sacchetti del modo idiomatico che abbiamo messo nel titolo: la prima dalle Rime – “Ciascun reca pur acqua al suo molino” (rim. 48.) – e la seconda dalla lettera Sopra le Dipinture de’ Beati: “Io avrei troppo a scrivere, se io volessi dire in quante luogora questo così fatto errore è divolgato, sol per tirare acqua a suo mulino”, tratta dalle Opere diverse” Testo a penna originale, che fu già del RIMENATO [Giuliano Giraldi]” (benché l’edizione fiorentina del 1724 delle Novelle, che la IV Crusca usa in altri casi, ma non in questo, nello stesso luogo della lettera rechi molino; d’altra parte la stessa edizione mostra due volte mulino, ancora nel modo di dire, nelle novelle CXLIV e CLVII). Si noti che in tutte le edizioni del Vocabolario le citazioni dalla Divina Commedia leggono sempre mulino laddove moderne edizioni hanno invece molino: esemplare il verso 47 del XXIII canto dell’Inferno il cui “mulin terragno” compare invariato da un’edizione all’altra (cfr.Enciclopedia DantescanTreccani, 1970-1978 sv molino).
Nei testi letterari, e non solo, l’alternanza continua nei secoli successivi fino a tutto il XIX secolo (per esempio usano molino Cattaneo, Cavour e Vincenzo Padula, mentre mulino è la scelta di Carducci e Pascoli), per approdare nel XX in due titoli di diversa fama: Il molino della carne del marchigiano Luigi Bartolini, edito a Milano nel 1931, e Il Mulino del Po del bolognese Riccardo Bacchelli, pubblicato dal 1938 al 1940 sulla “Nuova Antologia”, da cui è tratto lo sceneggiato televisivo citato all’inizio.
Anche a livello delle varietà tradizionali lo scenario testimoniato dall’AIS carta 252 “Il mulino (ad asino)”) con dati risalenti alla prima metà del XX secolo, mostra entrambe le varianti diffuse in grandi aree: le forme con u sono dominanti in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna e poi in Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; le forme in o risultano maggioritarie in area lombarda orientale, in Veneto e Trentino e anche in Lazio e Campania. Abbiamo poi una zona in cui è difficile stabilire la prevalenza di una forma sull’altra, costituita da Umbria, Marche e anche dalla stessa Toscana, la quale presenta mulino in area centrale, mentre in quelle orientale, nord-occidentale e meridionale ha molino.
Poiché parliamo della denominazione di una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale anche la toponomastica può fornire indicazioni utili: dal Catalogo delle foto aeree dell’IGM, emerge una massiccia supremazia di molino su mulino in tutte le regioni italiane, Toscana compresa: tra i numerosi toponimi con Molino basterà ricordare quello del Piano, frazione del comune di Pontassieve, alla porte di Firenze. Passando agli odonimi e limitando l’analisi all’area di Firenze, benché vi sia una via “del Mulino”, nella zona di Serpiolle, e una “delle Mulina” a Sant’Andrea a Rovezzano, entrambe già attestate nello Stradario storico e amministrativo della città e del comune di Firenze del 1913, l’edificio sul torrente Terzolle, da cui la prima prende il nome, era denominato “Molino” ancora nella mappa catastale del 1919 (cfr. la III edizione dello Stradario, a cura di Piero Fiorelli e Maria Venturi, Polistampa,2004). In area metropolitana fiorentina sono inoltre presenti vie “del Molino” in direzione nord, a Calenzano e a Sesto Fiorentino, verso ovest, a Scandicci, verso sud, a San Jacopo al Girone.
Evidentemente molino ha affiancato la forma mulino resistendogli anche nel toscano parlato e scritto, forse sostenuto da una serie di termini, mola in primo luogo, ma poi anche molenda, molitura, molitorio tutti specifici dell’ambito della macinazione del grano o delle olive.
Fin qui però abbiamo tracciato il profilo di una situazione ormai pregressa; per capire quale delle due alternative sia tendenzialmente più favorita, almeno nell’uso scritto, ci serviamo dei dati offerti dal corpus di Google libri: la sequenza “un mulino” (per evitare l’interferenza col nome della casa editrice Il Mulino) trova 12.400 occorrenze nel XIX secolo, 20.200 nel XX e 7.390 nel XXI; “un molino” (che esclude il cognome Molino) produce questi risultati: 11.600, 7.910 e 1.110. Pur con la necessaria prudenza, possiamo considerare il XX secolo come lo spartiacque per la decisa affermazione di mulino. Anche nel panorama indifferenziato della rete (dati in italiano al 9.5.2016) mulino si mostra di gran lunga dominante, almeno nei due sintagmi mulino/molino a vento e mulino/molino ad acqua (siamo sempre nell’ordine delle centinaia di migliaia per mulino, mentre molino si attesta sulle decine di migliaia nel primo caso e sulle migliaia nel secondo); coloro che combattono “contro i mulini a vento” superano i 70.000, mentre sono lontani dai 700 quelli che invece lo fanno “contro i molini a vento”. Se si parla invece di canale del mulino/molino o di gora del mulino/molino si riscontra un’inversione di tendenza, ma è bene notare che per entrambe le alternative ci si muove sull’ordine delle migliaia di occorrenze con notevole riduzione della forbice.
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